Intervista ai clown di VIP (viviamo in positivo) Bari.

Per noi guarire non è solo prescrivere medicine e terapie, ma lavorare insieme condividendo tutto in uno spirito di gioia e cooperazione.” [Patch Adams]

Ho deciso di aprire l’intervista con questa citazione del noto dottore Patch Adams non casualmente, essendo egli famoso in quanto ideatore di questa forma di assistenza sanitaria ed esprimendo, con queste semplici parole, l’essenza dell’attività svolta dai “clown di corsia”.

Il 25 marzo 2015, ho avuto l’opportunità di intervistare alcuni di questi volontari.

Tematica a me molto a cuore da sempre e che ho avuto tutto il piacere e l’interesse di approfondire, permettendo, a quanti ne sappiano poco o nulla, di conoscere le dinamiche che si celano dietro a quei nasi rossi, le emozioni che, grazie a questo percorso provano e cosa li ha portati ad intrecciare le loro vite con questa attività.  

I volontari da me intervistati saranno citati con il loro nome da “clown”: clown Tadala (clown anziano o angelo, ovvero completamente formato), clown Smemi (in formazione da un anno circa) e clown Malinkaja (clown in formazione, corso base svolto ad ottobre).

–         Come descrivereste la clownterapia a quanti se ne vogliono approcciare, in  base a ciò che avete appreso dalla vostra esperienza? E cosa vi ha spinto ad intraprendere questo percorso?

Smemi:  sono un serie di sensazioni, di emozioni varie, che ti travolgono, provi felicità mista a stupore, ecco sì, “stupore” è l’aggettivo più idoneo per descrivere questo percorso, ogni emozione che lo caratterizza.   Io, a quanti mi potrebbero domandare della clownterapia per magari intraprendere anche loro questo percorso,  gli direi “buttati, vai!”, perché è tutto uno scoprirsi, è un percorso personale e collettivo: personale perché le sensazioni che ognuno di noi prova sono singolari e mai universali; collettivo perché non esiste un “Io” ma solo un “noi”, la fiducia fra i compagni è alla base di questo cammino ed in reparto la complicità è ciò che conta.  Gli direi di andare, di provare spogliandosi di ogni timore o pensiero e aprirsi a questo nuovo mondo. L’emozione più forte che posso esprimere è proprio quella della meraviglia, di fronte ad ogni piccolo gesto che compiamo.

Malinkaja: io sono arrivata al punto che sì, lo faccio per gli altri, perché comunque è volontariato, però lo faccio soprattutto per me stessa, perché intraprendere questo tipo di percorso, significa davvero crescere, ogni giorno che passa,ogni esperienza vissuta, ti fa cambiare il tuo punto di vista rispetto alla vita, rispetto a come la vedevi prima, crescere soprattutto, perché Vip è una famiglia, una grande famiglia, tu sei consapevole che in qualsiasi momento, qualsiasi sia il tuo problema, hai sempre qualcuno su cui poter contare, per me questo significa il percorso di clownterapia: crescita.

Il  mio scopo in questo cammino era riuscire ad essere me stessa il più possibile in tutti gli ambiti, con tutte le persone con le quali mi relazionavo: perché essere clown non significa costruire un personaggio, significa rendersi conto di quelle che sono le tue qualità e metterle in luce nel tuo personaggio clown, farle ancora più tue, questo, dunque,ti porta a conoscerti ancora meglio e ad accettarti di più.

Tadala:  essere clown significa raggiungere una libertà interiore, che puoi far uscire solo se hai solo quel naso rosso, quando lo indossi sei libero, sei una persona pronta a condividere qualsiasi cosa, in quel momento non ti fa paura niente, neanche il rifiuto degli altri, perché sai che hai la magia di quel naso, tu ritorni bambino, non hai timore di far uscire quel bimbo che è dentro ognuno di noi, il naso rosso ti permette di fare questo, anche di gioire del sorriso di un bambino che in quel momento sta soffrendo. Ti arricchisce.

Sono esperienze di arricchimento, di condivisione, di crescita, ma non solo in quanto clown, è una crescita interiore, che ti porta ad affrontare qualsiasi tipo di situazione, con sicurezza. Il naso rosso fa parte di noi ed è per questo che lo portiamo sempre insieme, se, ad esempio, al supermercato vedo un bimbo piangere, indosso il mio bel naso rosso e lui smette, cosa ho fatto? Nulla, un piccolo gesto, ma noi ci aspettiamo le piccole cose,che fanno le grandi cose. Una volta entrato in questo mondo sei libero, noi facciamo le cose più assurde ma senza vergogna, senza avere inibizioni, con la spontaneità di un bambino, quindi, secondo me, è la cosa più bella di questo mondo.  L’essere clown è una chiave universale: ti fa entrare dappertutto.

–         Cosa conoscevate di tale attività quando avete deciso di intraprenderla e cosa ha confermato le vostre conoscenze e quanto invece si è rivelato diverso dall’immaginario comune? 

Risposta unanime: a noi è stato confermato proprio tutto, non si va in cerca, tu vai mirato: vuoi fare il clown.

Tadala: li avevo già conosciuti, sapevo cosa facevano in reparto, in quanto volontaria ospedaliera, avevo già conosciuto i clown e presentai già altre due domande di ingresso, ero a Milano e l’avevo fatta lì, poi, non essendoci disponibilità di posti e per non perdermi questa occasione, ancor prima di scendere a Bari, presentai lì la mia domanda.

Malinkaja: per quanto mi riguarda nessuno mi parlò della propria esperienza nel mondo della clownterapia, un giorno mi trovai a parlare con un’amica e mi disse che voleva intraprendere questo cammino, le domandai cosa fosse e mi rispose “hai presente Patch Adams? Solo che lo fanno in Italia” , di lì, anche se in momenti diversi, iniziammo le nostre esperienze.   

Smemi: ci fu una giornata a scuola in cui si parlava di clownterapia, di diverse associazioni, io, forse essendo un po’ più piccola, come reazione pensai subito che fosse una cosa meravigliosa, che ci volesse un coraggio incredibile, a quel punto andai alla ricerca sul sito stesso pur rimanendo sempre titubante e domandandomi se ne fossi all’altezza, poi uscì la data del corso base e decisi che era il momento, che dovevo lanciarmi in quest’esperienza, avevo trovato quel coraggio. Grazie a questa attività comprendi che non hai visto tutto, che c’è ancora tanto da scoprire, ancora tanto di cui meravigliarsi.

–         In cosa consiste la vostra associazione? Da chi è costituita? Che tipo di impegno comporta farvi parte? Quali attività svolgete? Che tipo di requisiti bisogna avere per parteciparvi?

Tadala: il requisito fondamentale è innanzitutto avere un grande cuore, bisogna avere una predisposizione prima di tutto per fare il clown, perché sarà anche tutto bello, tutto favoloso, però ti metti in gioco e non in parte, ma completamente, quindi inizialmente la prima cosa a cui bisogna essere pronti è proprio a mettersi in gioco, perché essere clown di corsia non è facile, significa impersonare un altro personaggio nella tua vita, ma non falso, quello vero, che ognuno cela dentro di sé, essere clown vuol dire non potersi nascondere dietro a nulla,  vuol dire essere predisposti ad aiutare gli altri, a rispettarli principalmente, capire che dietro a tutto ciò c’è gioco e rispetto, un grande rispetto per chi soffre e per i tuoi compagni. Bisogna essere pronti a condividere qualsiasi cosa, ad essere pronti a tutto quello che ci può capitare e a fidarsi di chi ci sta accanto o, quanto meno, ad arrivarci crescendo lungo questo percorso, in quanto in reparto la complicità e la fiducia sono tutto, non sempre si ha modo di parlare prima di entrarvi e ci si capisce con un semplice sguardo.       

La grande famiglia di Vip Bari è nata nel 2005 dal desiderio di alcuni ragazzi di portare i nasi rossi anche qui al sud essendo situati, prima di questo momento, solo nel settentrione. E’ nato come un sogno di questi ragazzi e poi si è ampliato nel tempo, siamo oggi ben cento clown che calcano le corsie degli ospedali ogni sabato e domenica: all’ospedale “Giovanni XXIII”, coprendo quasi tutti i reparti e al Policlinico al reparto di oncologia pediatrica. Abbiamo organizzato dei corsi anche nelle scuole.

Per far parte della grande famiglia di Vip non bisogna avere particolari qualifiche o titoli di studio, gli unici costi che richiede sono il pagamento del corso formativo svolto in tre giorni e il pagamento della quota associativa.         

Malinkaja: un clown non può dire no, devi fare tutto, anche se non lo sai fare devi trovare il modo di farlo,per poter dire che l’hai fatto, il come è relativo, ciò che conta è aver tentato.             

–         La clownterapia è un tipo di assistenza in ambito sanitario svolta in contesti di disagio sociale o fisico dunque in luoghi quali: ospedali, cse di riposo, case famiglia, orfanotrofi, centri diurni, centri di accoglienza ecc., contesti nei quali si entra in contatto con esperienze estremamente dolorose e con le emozioni e le sofferenze di quanti ne sono protagonisti, quali sentimenti smuovono in voi? Quanto, a fine giornata, di queste vite rimane nelle vostre? Quanto del “clown” rimane in voi?

Tadala: l’impatto che hai nel vedere in particolar modo un bambino che soffre, ma anche un anziano o un disabile, è forte, molto forte, però essere clown è anche questo: assorbire, in silenzio e ridere con le labbra, io dico sempre e lo dico anche a loro (si rivolge alle clown in formazione: Smemi e Malankaja): che essere clown vuol dire piangere tanto nel cuore, però sorridere con il volto, perché sennò questo noi non potremmo farlo. Per cui l’impatto è fortissimo, io a volte quando torno a casa piango, perché capita di affrontare situazioni estremamente dolorose, ma tu sei più forte della situazione, non ti puoi permettere in quel momento di soffrire o di piangere esternando il tuo dispiacere, perché sennò tu non riesci a dare quello che vuoi dare, non riesci a sollevare in quel momento quel bambino, quella mamma, perché noi molte volte siamo più di sostegno per le famiglie che per il bambino stesso. L’impatto dunque è indubbiamente forte, ma noi ci alleniamo proprio per prepararci a questo o all’eventuale rifiuto che possiamo ricevere dal paziente, perché questo si può rifiutare di ricevere il nostro sostegno, ma lo scopo del clown non è ottenere un sorriso, ma una reazione, di qualsiasi natura, anche un rifiuto, anche la rabbia, sono comunque una reazione, perché chi vive momenti di tale dolore può affrontarlo, a seconda della propria sensibilità, nei modi più diversi e a volte la rabbia e il rifiuto ne sono le conseguenze, ma non importa, ciò che conta è che reagisca perché reagire vuol dire lottare per vivere, voler vivere, ancora.      

Quando si svolge il turno, non ci si sofferma su ogni parola, gesto o situazione perché si è ovviamente presi dall’attività, ci si concentra su che fare, sui propri compagni, bisogna innanzitutto condividere ed ascoltare, quindi troppo impegnati per soffermarci. Al termine dei turni, di ogni turno, abbiamo un momento di condivisione per esprimere, per chi vuole esprimere, perché ci si può anche astenere in quanto magari ancora troppo scossi, le emozioni provate, è il nostro primo sfogo. Quando rientro a casa dico sempre ai miei familiari di lasciarmi dieci minuti, per metabolizzare le esperienze vissute in quel turno, mi siedo in silenzio e rivivo ogni attimo: i bambini, la sofferenza, mando via tutte le cose brutte chiudendole, archiviandole in una parte del mio cuore e conservo solo le cose belle, per stare bene e poter affrontare il turno successivo, perché diversamente non potrei proseguire questo percorso perché satura di tristezza e di dolore. Questo è l’equilibrio che io ho individuato nel mio cammino: dissocio il bello, le gioie,dalla sofferenza. Dopo quattro, cinque mesi, mi risale tutto il dolore, a quel punto non lo chiudo in me stessa, a quel punto piango e solo allora sono pronta ad affrontare altri quattro,cinque mesi, sono pronta a ricominciare. Perché non ti puoi nutrire di dolore, o non puoi più ridere alla sofferenza.        

Smemi: io prima del mio primo turno in oncologia, ne ho fatti altri in ospedale, in neurologia, è sempre doloroso ma è diverso, la sofferenza è meno evidente e non sempre è così estrema, in oncologia, invece, il dolore segna i volti e i corpi, non puoi non vederlo. Decisi di inaugurare i miei turni in oncologia prima di Natale, precisamente il 22 dicembre 2014 e non casualmente, volevo mi rimanesse qualcosa da quella esperienza. Il mio principale augurio era quello di portare un po’ di sollievo in un periodo dell’anno, per chi soffre, così particolare. Giunta al secondo piano era quasi un livello, come quando nei videogiochi superi i livelli precedenti ed accedi a quelli superiori, a quelli più difficili. C’è stato un momento in cui mi sono bloccata perché era come se avessi realizzato il passo che stavo per compiere, che avrei incontrato quei volti e il loro dolore di cui tanto se ne parla, ma incontrarli è decisamente diverso. Non hai neanche il tempo, in realtà, di pensare troppo, perché tu entri, hai questo impatto, io mi sono irrigidita attimi poi, come sempre nella nostra grande famiglia, grazie al sostegno di chi condivide con te in reparto il turno superi i tuoi timori ed entri subito in contatto dimenticandoti di tutto il resto, del contorno, perché a quel punto tu sei lì per loro e non hai di certo il tempo di pensarci più di tanto perché per te in quel momento sono dei bambini con cui devi giocare e farli ridere, non pensi alle loro condizioni, non li pensi più in ospedale, diventano i personaggi della storia che creiamo per loro. L’impatto è indubbiamente agghiacciante, però è solo una questione di pochi attimi, si crea subito sinergia e dimentichi, per un istante, di essere lì, in quel reparto,diventi il personaggio della tua storia. Al rientro a casa ovviamente un po’ ci pensi magari ti dici “io li ho lasciati lì”.

Al termine di ogni turno, come ha anticipato Tadala, c’è questo cerchio della condivisione per esternare le emozioni provate, ma io, personalmente, dico poco o nulla perché è troppo presto per metabolizzare quello che hai provato, neanche lo sai quello che hai provato, è troppo presto, io ho bisogno di più tempo per realizzare, nemmeno la sera riesco a soffermarmi su ciò che ho provato e quindi cerco di mantenermi il più impegnata possibile, mi fermo un attimo ma non appena mi rendo conto che mi sto soffermando troppo torno a tenermi indaffarata, anche se poi mi sono resa conto che comunque mi rimangono dentro queste emozioni e quindi sto cercando di imparare ad esternarle.   

Malankaja: io ho fatto solo il mio primo turno e, ovviamente, non ho voluto rompere il ghiaccio dall’impatto più difficile da affrontare, però per quella che è stata la mia esperienza effettivamente, come diceva la stessa Smemi, quando entri in reparto tutti quei mille dubbi che ti assillavano in precedenza si annullano: appena sei lì, non sei più tu, non c’è più l’ “io persona” ma l’ “io clown”. Una volta entrata nel reparto,è come se fossi sempre stata lì, come se quello fosse il mio posto e tutto il resto non esistesse, sono per me tutti bambini in quel momento, ognuno con le proprie diversità.

A conclusione del mio primo turno come reazione sono rimasta in silenzio, poi non appena c’è stato il cerchio della condivisione, ero come un fiume in piena. Una volta rientrata a casa è naturale ripensare al turno e non penso tanto a ciò che ho detto o ho fatto, ma ricordo tutti gli sguardi o i movimenti dei bambini con i quali mi sono relazionata.

–         Il “clown dottore” o “clown di corsia” è un operatore specificamente formato, in particolar modo nel nostro Paese la formazione va da un minimo di 150 ore a master universitari, dunque non un semplice hobby ma un vero e proprio impegno, a quale tipo di sacrifici deve essere consapevole di andare incontro chi decide di intraprendere il percorso della clownterapia?  

Smemi: richiede impegno in quanto sono previsti ed obbligatori se si vuole accedere al turno in ospedale, due allenamenti al mese,è sì sicuramente un impegno anche se nessuno di noi lo vive così in realtà, richiedendo una disponibilità non eccessiva (una o due volte al mese per allenarsi si riescono a conciliare e una domenica o una sabato per il turno si possono fare), diviene poi più che altro un’esigenza, è ormai parte di noi e delle nostre vite.

Malankaja: per me la stessa cosa, non ha mai rappresentato un impegno, il tempo lo trovo per farlo e anche se dovesse capitare che non riesco a trovarlo, non succede nulla.

Tadala: è un’attività che ti gestisci tu, quindi come hanno anticipato loro, non l’ho mai vissuto come un impegno ma semmai una necessità, una passione, un piacere, per le ragioni anticipate da Smemi (due allenamenti obbligatori al mese per avere diritto ad eccedere al turno in ospedale, perché se si saltano più di tre allenamenti vanno recuperati in quanto il feeling, che è fondamentale  fondamentale con i compagni, si è interrotto) non è un impegno così insostenibile, magari può diventare più assiduo quando vi sono degli extra come questa intervista o altre attività, però anche in questo caso ci si gestisce in base alle disponibilità di tutti, niente è obbligatorio, tutto è volontario.

–         Quanto di questa attività vi ha cambiato e donato e quanto pensate di aver donato e cambiato le esperienze di coloro che avete fatto ridere nel dolore?

Tadala: io penso di aver donato un po’ di fiducia e di felicità alle persone che ho incontrato e c’è stato un episodio, in particolar modo, che mel’ha confermato: in oncologia c’era un ragazzo con handicap gravissimi e la prima volta che lo incontrai era molto triste, non parlava e non poteva nemmeno farlo a causa delle sue gravi condizioni. Nacque immediatamente un feeling fra me e questo ragazzo che mi designò come sua fidanzata ed io stavo allo scherzo giocando con la mamma del giovane chiamandola suocera. Il ragazzo anche se non riusciva a parlare, comunicava con me attraverso lo sguardo. La mamma scherzando, definendoci noi fidanzati ci domandò quando ci saremmo sposati, il ragazzo, che prese consapevolezza della sua malattia, rispose “fidanzati tutta la vita, sposati mai” e mi rivolse un sorriso bellissimo, io ero per lui quello che probabilmente non avrebbe mai potuto avere: una fidanzata e questo mi ha resa felice e mi ha donato immenso amore. Io so che per quel ragazzo ero una speranza, aspettava che andassi in reparto la domenica. Questo è quello che doniamo: una speranza.

Grazie a questa esperienza io nella mia vita ho cambiato molte cose, anzitutto ho imparato a dare valore a quel che realmente conta e a non darmi pena per le sciocchezze che quotidianamente lamentiamo e che molte volte sono piccolezze, che bisogna essere positivi e che ogni mattina, quando apriamo gli occhi, abbiamo già di che gioire e ringraziare, perché c’è chi non può più farlo o non più come prima, quindi ho imparato ad accettare tutto della mia vita e ad essere felice.

Smemi: ciò che mi ha cambiata mi sta cambiando di questo percorso è il modo in cui guardo e vivo la vita, imparando a viverla completamente razionalizzando e ridimensionando quelli che per me prima erano ostacoli insormontabili o motivo di pena come ad esempio l’università, rendendomi consapevole di quanto ogni giorno siamo fortunati e mi sta insegnando a dare fiducia agli altri ed è stupendo perché anche se pensiamo di farlo costantemente in realtà molte volte scopriamo e capiamo di non farlo affatto. Mi sta insegnando oltretutto quest’esperienza ad aprirmi e a conoscere gli altri.

Malinkaja: per quanto mi riguarda è ancora troppo presto per poter fare un bilancio di quanto mi ha donato e quanto mi ha cambiata quest’esperienza e quanto io ho donato e cambiato le vite di chi ho incontrato, però io la penso come Smemi e Tadala e cioè il dono più grande che questa esperienza ti fa è un nuovo modo di guardare e vivere la vita, più pieno, più completo e ci insegna a dare il giusto peso agli ostacoli che quotidianamente incontriamo. Come tutti ovviamente ho i miei momenti di sconforto ma pi mi ricordo di Vip (vivere in positivo), di questa grande famiglia e che sono un clown e non devo abbattermi e quindi mi rialzo e vedo le cose in modo diverso.

–         Che emozione, ammesso le parole possano descriverla, provate nel vedere spuntare un sorriso su un volto segnato dal dolore?

Tadala: che quello che facciamo è giusto e che dobbiamo avere sempre più forza per andare avanti.

Malinkaja: ti fa sentire bene perché sai che sta sorridendo perché tu l’hai fatto sorridere.

Smemi: ti fa tornare la voglia di iscriverti al turno successivo.  

 Fondamentale è sottolineare che i clown di Vip non richiedono soldi per  le strade e che il fenomeno di quanti si spacciano per loro è una TRUFFA, i clown Vip hanno un camice di origine controllata riconoscibile dal collo rosso, le maniche rigate una gialla ed una verde con scritto “Vip Italia” .

I clown di Vip Bari vi attendono in piazza del Ferrarese il 31 maggio 2015 nella giornata del GNR “giornata del naso rosso” (svolta in Italia nel mese di maggio e quest’anno per Vip Bari, impegnata nelle elezioni, cadrà in data 31 maggio anziché 17 maggio come in tutto il resto d’Italia)  unico momento dell’anno in cui scendono in piazza per farsi conoscere e far conoscere le attività da loro svolte a quanti se ne vogliano approcciare  e con lo scopo di raccogliere fondi tramite donazioni assolutamente libere. Giornata nella quale saranno organizzate attività, giochi e saranno allestiti gazebi, con lo scopo di portare il sorriso.   

clown Vip Bari

 

 Link utili per saperne di più su Vip Bari: 

https://www.facebook.com/vipbarionlusicoloridelsud?fref=ts

  http://www.clownterapia-bari.org/                 

 

 

 

 

Condividi su:

Un pensiero su “Intervista ai clown di VIP (viviamo in positivo) Bari.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.